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Paese

Chi non ha mai vissuto in un paesino non sa che il vero “social” è la piazzetta, dove ti fermi a parlare con chiunque passi, osservi tutto quel che accade e ne sei parte.

Non conosce l’odore dell’Alimentari che in realtà vende ogni cosa (è quel misto di mortadella e sapone per i panni in polvere, che non si può riprodurre in nessun altro luogo del mondo); non sa che ogni ritorno è una prima volta, pure se è uguale a se stesso (le stesse domande, le stesse risposte, dalle stesse persone) e non può capire che quando muore qualcuno scompare anche un pezzo della propria storia personale.

Sono molte altre le cose che restano ignorate a chi non ha mai vissuto in paese e che non si possono mettere in un bagaglio personale perché non si possiedono.

A me di Falconara manca la familiarità. Il fatto di sapere perfettamente, sempre, chi ho davanti, da dove viene, a volte persino cosa mi dirà: per quanto estranea possa esserti una persona, se siete dello stesso paese siete “lo stesso sangue sparso”.
Io ci provo, qui in Abruzzo, a intrufolarmi nei paeselli, ma non è affatto la stessa cosa.

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Compleanni #1

Ho un’idea molto romantica dell’amore di coppia: è quello tra due persone che, nel rispetto delle differenze, sanno far emergere il meglio l’uno dell’altra. Ma anche il peggio. E perdonarselo ogni giorno in una risata.

Ho un’idea molto semplice della vita: fare quello che ti piace, con onestà e coerenza, e farlo bene. Al meglio delle tue possibilità, nel rispetto dei tuoi valori, che sono l’unica cosa cui permetti di dettare legge.

Ho un’idea molto precisa di me stessa: io sono quella che fa la differenza. Che dinanzi a un tramonto, a un terreno, a una scelta o a una difficoltà, può scegliere lo stato d’animo con cui guardare, la semenza da piantare, la decisione da prendere, la soluzione da adottare e, sempre, la forza da imprimere ad ogni cosa.

Io mi guardo che amo, vivo e sono e vedo te, papà.

Buon compleanno.

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Strade

Avrò avuto 14 anni. Passeggiavo con mio padre per le strade di campagna del mio paesino (900 abitanti, più o meno), avevano da poco creato una strada interpoderale prima inesistente, asfaltata e illuminata. Serviva i terreni di alcuni paesani e nulla più.

Chiesi a mio padre, nella mia ingenua ignoranza: “Ma che senso ha spendere questi soldi per fare una strada che serve solo a motozappe e trattori?”
Mi guardò con tenerezza mista a un po’ di riprovazione: “A portare il progresso”, rispose. “Ti immagini se nei secoli scorsi tutti avessero ragionato come te, ritenendo inutile un’infrastruttura? Intere zone rurali d’Italia, del mondo, sarebbero rimaste tali, non si sarebbe creato sviluppo, economia, lavoro, progresso, civiltà e cultura. Saremmo rimasti tutti dove eravamo senza la possibilità di estendere i nostri confini, ampliare i nostri orizzonti, migliorare le nostre vite”.
E’ da allora che penso che nessuna strada, in nessun luogo del mondo sia inutile. E che ogni varco aperto (ogni ponte eretto) possa essere opportunità e resti, comunque vada, progresso. E il progresso mi piace.

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Facci caso

Fateci caso. A quel maglione che adesso giace in fondo all’armadio, ma vi ha accompagnato a fare un esame da 30 all’università e vi ha riscaldato quando lui vi ha detto che non era amore. Fate caso a quelle lettere che tenete nella scatola di latta: tiratele fuori per leggerle ora, che da quei racconti è passata una vita e se siete come siete è anche perché avete letto quelle parole. Fateci caso a come vostra madre fa il soffritto, perché quel sugo che da pranzo digerirete a notte fonda, un giorno smetterà di profumare la domenica. Fateci caso ai tic nervosi di vostro fratello, a come tenete la sigaretta, a come vi piacciono le uova (vero, Monica?) e a come girate il caffè, perché non potrete pretendere di conoscere gli altri, se prima non memorizzate voi stessi. Fateci caso alla primavera che sboccia mentre è ancora inverno, al latte che sobbolle prima che fuoriesca dal pentolino, a come vi guarda il vostro migliore amico, se ancora ne avete uno.

Fateci caso a come camminate per strada, se seguite una traiettoria immaginaria o puntate i piedi a caso. Fateci caso alle volte che dite “buongiorno” per primi e alle volte in cui non rispondete. Alle parole che usate, per chiedere perdono. Perché il perdono si può anche chiedere e non solo accordare.

Fateci caso quando canticchiate una canzone, ché se la conoscete allora magari vi piace e se vi piace non deve importarvi se chi la canta è uno “sfigato”.

Fateci caso se un’assenza vi addolora più di un addio, ché a volte chi se ne va si toglie di mezzo, mentre chi ci manca forse non è più capace di esserci.

Fateci caso alle cose che vi infastidiscono, alle persone che vi tediano, ché forse è il caso di essere più concilianti con le une e meno accondiscendenti con le altre.

Fateci caso ai giorni che passano e vi lasciano qualcosa, ma soprattutto a quelli che non lasciano niente, perché dovete essere sicuri di non avergli lasciato qualcosa di importante voi.

Fateci caso alle cose che vi distraggono, che magari sono lì per essere affrontate, guardate in faccia e riconosciute, per andare oltre e diventare attenti.

Qualcuno dice “quando siete felici, fateci caso”. E io vi dico di fare caso pure quando siete tristi, anzi di più, perché l’assenza di bene, è quella che va curata e prima ancora va capita, perché se ne guarisca.

Fateci caso se riuscite a vedere anche al buio, perché a volte la cecità non è mancanza di vista, ma incapacità di percepire la luce.

 

 

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Supererò le correnti graviDazionali

Oggi mi sono lanciata alla febbrile ricerca di lenzuolini per bambini, perché servono in Capanna (la casa-famiglia dove presto servizio). Naturalmente già la premessa era sbagliata, perché è risaputo che il mondo “graviDazionale” è un sistema socio-economico a parte: esso è un ramo, peraltro molto frondoso, del poderoso albero che è l’universo femminile (!) e in più ci stanno dentro i bambini. Non poteva che essere il caos.

Il caos per una sprovveduta come me, sia chiaro, perché puerpere e madri in genere sanno perfettamente di che si parla, che fare e dove andare, conoscono regole, gestiscono sistemi di potere, detengono i codici. Loro.

Io, che pure come donna ancora non c’ho ben chiare le cose (per me una borsa è una borsa, non ha un nome proprio; la texture del fondotinta non ha il numero definito per la mia pelle: devo provarlo ogni volta; e qui lo dico e qui lo nego: so qual è la mia taglia di reggiseno, ma non riesco a memorizzare la coppa), annaspo. Insomma, vado in un supermercato, cerco un po’: niente.

Chiedo a una commessa e mi guarda come se fossi la peggio carogna del peggior bar di Caracas: “queste cose (tono cazziatorio) si trovano nei negozi specifici per bambini” e siccome il suo sguardo non ammetteva repliche tipo quella che avevo in mente ( “vabbé ma siamo nel reparto tessili e non in quello salumeria, apprezzi almeno questo”) ho chiesto timidamente quali fossero. Nuovo sguardo di disappunto per la serie “ecco quella che si è voluta divertire fino a mo” e sciorina “Prenatal, Chicco, Bimbi&mamme (sì, lo ha pronunciato con la &) che sta pure qua vicino”.

Parto alla volta di questo posto, che scoprirò essere una delle porte di quell’universo parallelo. Ora, qui tocca aprire parentesi: Bimbi&mamme??? Cioè, ci trafiggono i cabasisi con la storia del gender e poi a uno che apre un negozio che si chiama bimbi&mamme nessuno dice nulla? E i papà? Sti creaturi nascono tutti per partenogenesi? E l’altra parte essenziale alla procreazione? Cacata zero. La reazionaria che è in me è fortemente tentata di sabotare la catena commerciale, ma devo portare a casa il risultato.

Chiedo il lenzuolino alla commessa. Sguardo canzonatorio: “intanto (!) è per un maschietto o per una femminuccia?”. Per la serie: “non mi hai detto i fondamentali, bella”. Dico che non si conosce il sesso, ma che immagino che per delle lenzuola non sia importante. Ho detto un’eresia e lo capisco immediatamente dal suo sguardo e lei rincara la dose perché, spiega, serve per scegliere la nuance del filato. Inizio a sudare freddo. In un attimo sfila davanti a me l’esame di Storia Romana, dove ogni mia risposta alle domande del prof era un passo in più verso il baratro di domande sempre più difficili cui seguiva la bocciatura. Incalza: “che tipo di lenzuola: navetta, culla o lettino?”.

Scanso l’immagine del nascituro con la divisa di autista Gtm che guida la navetta per i negozi del centro. Deglutisco. Non conosco la risposta, ma ho paura di ammetterlo. Col prof di Romana almeno lo ammettevo. Dentro di me un improvviso moto di sopravvivenza mi suggerisce di cedere l’onore delle armi, perché tanto se anche sapessi rispondere comincerebbe a chiedere quanti mesi ha la forma di parmig…ehm il bambino, se dorme supino o fetale ed ogni quanto si sveglia.

Non lo so, non so niente, sono in un posto che si chiama bimbi&mamme, non sono contemplate i papà, chi vuoi che si caghi una zitella volontaria che non è manco parente del criaturo. “Guardi, torno con più informazioni, tanto per il parto c’è ancora tempo”. Appena pronuncio quelle parole il nodo in gola si scioglie, la temperatura corporea si stabilizza, esco e respiro, leggera.

Domani a comprare gli optional per l’Enterprise del nascituro ci andrò con una amica mamma. Ne ho tante, qualcuna è rimasta normale

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La nostra Africa

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C’è un romanzo (autobiografico) che adoro, “La mia Africa” di Karen Blixen, che secondo me è anche uno dei più bei trattati sulle relazioni, sulla natura tutta e su quella umana, in particolare.

C’è un po’ di tutto: la fuga, il ritorno, la fiducia, la delusione, la sofferenza, la speranza, l’amore, l’abbandono. Il contesto (storico e geografico) è praticamente impossibile da sperimentare, ma le vicissitudini ci riguardano un po’ tutti, ognuno con la sua porzione di vita. Ed è per questo motivo che lo amo.

Amo, in special modo, il racconto di questo episodio:  “Perché non vuoi aiutarmi, Kamante? Bisogna aggiustare la diga”, dissi all’indigeno kikuyu mentre, con le mani nel fango, cercavo di rimodellare la terra rossa in forma di argine. Kamante rimaneva indifferente, appoggiato al suo bastone di legno di tamarindo. “Msabu”, disse infine con occhi severi, “Perché vuoi fermare quest’acqua? Voi muzungu continuate a non capire il senso delle cose. Quest’acqua non ci appartiene, deve scorrere. Quest’acqua deve tornare a Mombasa”.

Kamante era un orfano malato che la Blixen aveva curato e “adottato” e che quindi era diventato servitore fedelissimo e amico affezionato della sua “Msabu” (padrona). Ma in quel contesto, quando cioè la Blixen  tenta di deviare il corso di un fiume per irrigare i suoi campi di caffè, rimane impassibile, immobile. E disobbedisce.

La sua saggezza primitiva e istintuale gli impone di obbedire unicamente a quell’Ordine superiore che non si può sovvertire: ci sono cose che non si possono comandare, perché la Natura che le anima è più forte. Così per noi: ci sono cose ineluttabili, che non si possono contenere in argini e situazioni, non possono essere piegate dal nostro volere. Riconoscerlo, restare immobili in ossequiosa acquiescenza, è l’unico modo per non esserne travolti.

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Genitori

Meditando sul mio rapporto con Dio, sono arrivata a capire da dove nasce la conflittualità (se c’è) coi propri genitori. Nasce dal senso di inadeguatezza che ci accompagna, spesso per anni, quando sappiamo che stiamo facendo una cazzata. E un genitore, che ci conosce come nessun altro, spesso è l’unico che lo sa, o che lo sa vedere. A volte non dice nulla, altre volte ci richiama, altre volte ancora prova a chiedere, indagare, dire, e innesca suo malgrado una reazione “esplosiva”. Che è il nostro modo per difendere quella cazzata e, di più ancora, il nostro accanimento nel farla, la nostra indolenza verso la possibilità di porvi rimedio.

Quando cresci e, soprattutto, maturi, la prima cosa che impari, è porre rimedio. Cambi direzione. La strada si appiana, il passo si allunga, il rapporto coi tuoi migliora. Nel rapporto con Dio questo si chiama “conversione”, che non significa solo credere che Dio esista, ma lasciarsi coinvolgere pienamente da Lui. Quindi siamo tanto più lontani da Dio, quanto più forte è il nostro senso di inadeguatezza, quanto con più forza difendiamo la cazzata che stiamo facendo.

E Dio, che è Padre, come un padre e una madre muto ci osserva, attende, ogni tanto manda segnali, e continua ad amarci, che li intercettiamo o no. In entrambi i casi sarà sciogliere il nodo che ci portiamo dentro, ad avvicinarci a quell’amore incondizionato e imprescindibile. Sarà, soprattutto, la nostra coscienza a consentirci di abbassare ogni difesa, le reticenze, ed arrenderci a quell’amore che ci ama per quello che siamo, per il fatto stesso di averci creati, e generati.

Un padre e una madre, in fondo non chiedono mai nulla che non sia nelle nostre possibilità attuare. Sanno sempre chi siamo. E cosa è meglio per noi. Se ci sembrano lontani e sconclusionati ed esigenti, è solo perché siamo noi che non ci conosciamo abbastanza.
Signori, agli occhi di Dio siamo costati il sangue del Figlio. Agli occhi dei nostri genitori siamo costati l’impegno, a vita, di un accudimento amoroso. Forse dovremmo iniziare a fare la nostra parte, per rendergli grazie. Al di là di tutto quello che le nostre piccole menti non sanno capire.

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C’era per sempre

Quando ero piccola mio padre non mi ha mai raccontato le favole. Ma mi ha sempre parlato della realtà delle cose, a volte nelle sue accezioni più stravaganti: storie che forse non avrei letto da nessuna parte, ma che succedevano davvero.

A 5 anni mi raccontò che se vuoi affermare un diritto negato devi fare sciopero, e qualche notte dopo mi trovò che dormivo senza pigiamino perché stavo scioperando per avere l’aumento della paghetta. Qualche tempo prima mi aveva detto che ognuno di noi è chiamato a fare il proprio dovere, se vuole godere di diritti: e così la paghetta me la dava solo se la domenica spolveravo la balaustrata della scala.

Qualche anno più tardi prese a spiegarmi il valore di un innesto, la teoria dei vasi comunicanti, l’importanza di non dover dipendere dalle promesse per esprimere, ad esempio, il proprio voto… E ancora più tardi, perché i pasticceri preferiscono le uova delle galline livornesi o perché una capra sviene, vittima della miotonia congenita. E solo pochi giorni fa mi ha raccontato come i topi trasportano le uova che rubano nei pollai.

Non mi ha mai “indottrinato” con la storia del principe azzurro che viene a salvarti ed è forse per questo che sono cresciuta con la consapevolezza di essere, sì, una principessa, ma che si salva da sola. Mi ha raccontato le cose che servono a farmi vivere in perfetta armonia col creato (non poteva immaginare che San Francesco avrebbe fatto il resto) e ha posto le basi perché fossi sempre attratta dalle cose curiose e stravaganti e sempre pronta a studiarle, per capire i “perché” e i “come”.
Un po’ è anche per questo che non credo alle favole che mi raccontano gli altri e perché ad un principe azzurro che se s’azzoppa il cavallo è fottuto ho sempre preferito l’autosufficienza e trovarlo da sola il sentiero in mezzo al bosco (in mancanza di valide alternative, certo). Ogni tanto mi chiedo come sarebbe andata se, invece, prima di dormire mi avesse raccontato qualche “C’era una volta”. Ma poi mi guardo allo specchio e mi dico che sarei poco credibile a calare le trecce dalla torre.

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La fuga

UN ANNO FA.

Non è un post, è un racconto (breve). Pensateci bene…

 

I F era ferma sulla banchina, in attesa del treno. Come sempre in largo anticipo, aveva tutto il tempo di assemblare pensieri mentre fluiva il …

Sorgente: La fuga

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Casa

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Io so come si sta bene qui, con quel magico sole a scaldarti che sembra sole solo qui, e non altrove.

Sono stata lucertola tante volte, in questo giardino, e gatto acciambellato sul divano, tizzone ardente nel camino. Sono stata tutte le primizie del loro orto e ogni ultimo frutto raccolto, la vite coi tralci tesi al cielo, ma senza uva, e il melo di nonno Michele, che ormai cresce solo qui.

Sono stata foglie secche e dipladenia in fiore, sono stata un pesciolino e persino un pettirosso.

Sono figlia, sono madre. Quindi, cara lucertolina avvolta dallo splendore, abituati ad essere la più bella delle creature, come chiunque arriva in questa casa.

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Vedere

Questa mattina il mio unico problema erano gli occhiali da sole.

I miei amati occhiali da sole Ray-Ban, uno delle tante paia di cui posso comodamente disporre, irrimediabilmente persi nel corso dei bagordi dell’ultimo week end.

Un oggetto. Una cosa che ha un prezzo, quindi facilmente rimpiazzabile, e alla quale attribuisco scioccamente anche un valore.

E’ da ieri che non trovo pace per averli persi, che non mi capacito di dover dire addio per sempre ai miei occhiali da sole preferiti.

Poi, a pranzo, incontro lui: ha gli occhi chiarissimi che lacrimano per il sole, ma anche per l’età, le sofferenze, gli stenti che una vita da “senza tetto” comportano (quanto ci piace edulcorare i concetti per prenderne le distanze! magari quell’uomo fosse solo senza un tetto, perché ha vederlo è chiaro che gli manca un letto e il cibo e i denti e le attenzioni e la dignità).

E i miei occhi, protetti nel frattempo da un altro paio di costosi occhiali da sole tra i tanti di cui dispongo,  solo dinanzi a lui si aprono veramente,  vedono, vengono letteralmente trafitti da quel suo stare al mondo che fa vacillare il mio.

Capire che il mio problema non sono gli occhiali da sole è stato un attimo.

Capire che tutti i miei proclami e il mio cammino di fede e le mie elucubrazioni e i miei studi restano solo meri esercizi di stile, finché non avrò riso per ogni oggetto perso e non avrò dato valore a ciò che non ha un prezzo, anche quello è stato un attimo.

Dinanzi ai miei occhi, oggi, si è palesato il Vangelo di ieri (Luca 16,19-31).

Mai come adesso mi sono sentita molto poco cristiana e francescana, mai come ora mi sento una emerita cretina. Cieca a dispetto di tutti gli occhiali che già possiedo o potrò permettermi di acquistare.

Perché non c’è paio di occhiali che garantisca la vista, se il cuore è posato su ciò che ha un prezzo.

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Altezze

…che essere davvero grandi significa far sentire chi hai accanto non tanto capace di volare, quanto di atterrare indenne da qualsiasi…altezza ❤

Quindi: ieri, dopo la visione del film “Un amore all’altezza”, scrivevo di quanto la reale statura di una persona si riconosca dalla sua capacità (o meno) di far sentire “alti” gli altri. Era una conclusione senz’altro ispirata da quella sceneggiatura, ma anche da un minimo di esperienza personale. Un film carino, capace di divertire e far riflettere, impegnativo quanto basta per lasciarti qualcosa, ma divertente il giusto per diluire un po’ la mia giornata già intrisa di pensieri. 

Ecco, dopo questo bel film, condiviso peraltro con la compagnia migliore che potessi desiderare, sono tornata a casa con “quel qualcosa” cui pensare e su tutto oggi aleggia questo pensiero: sono grata a Dio per tutte le persone dissimili (se non opposte a me) che mi ha messo sul cammino, perché è solo grazie ad esse che ho conosciuto e imparato l’immenso valore non della diversità, ma dell’uguaglianza.

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Non più lacrime

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Credo che mio padre sia l’ultimo dei romantici che usano ancora il Johnson’s Baby Shampoo e così venire a Falconara per me non significa solo mangiare bene, dormire meglio e dimenticare dove sto andando a tutto vantaggio del “da dove vengo”, ma significa soprattutto avere quelle piccole ed ataviche certezze che cristallizzano il tempo e danno conferma che le cose importanti, in fondo, resistono a tutto, con buona pace delle messe in piega, perché quello che conta non è avere i capelli in ordine, ma la testa a posto (e magari lo stesso profumo di papà).

Ps: per inciso, io ci credevo alla storia del “non più lacrime” della pubblicità, ma la verità è che il Baby shampoo mi fa lacrimare come un vitello.

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The dark side of ederly

Gli anziani. Chi mi conosce lo sa: io c’ho il debole per loro.

Sono teneri. Sanno sempre stupirsi per qualcosa, ed hanno sempre una storia da raccontare, un aneddoto che li vede protagonisti di tutto lo scibile umano. Almeno di quello pre-internet. Ora che la tecnologia 2.0 (e oltre) ha velocizzato e stravolto le cose, le relazioni, l’umanamente comprensibile, loro non ci si raccapezzano più. Ma si limitano a scuotere la testa, a raccontare appunto qualche aneddoto “ex ante”, pur di non darsi per vinti, e pace.

Di norma non giudicano, di norma non condannano. Raffrontano. Confrontano e tornano a scuotere la testa. Sono indifesi. Hanno una malizia ingenua, sono portatori sani di gag e ilarità, ma anche di insegnamenti, forza, esempio, amore e vero sacrificio. E restano gli unici esseri umani realmente difendibili, benché siano la parte meno difesa di questa società “della conoscenza” che conosce (e non sempre riconosce) a malapena i propri genitori.

Deboli e indifesi, questi anziani, almeno fino a che non diventano un anello, talvolta un perno, più spesso la chiave di volta, di una fila.

E qui si scopre il lato oscuro dell’anziano.

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L’anziano, che a ben vedere potrebbe fare della fila un passatempo per giornate spesso troppo lunghe e vuote, ne fa invece un’urgenza. Una questione di vita o di morte: ora o mai più (e sì, forse perché loro più di chiunque hanno il senso del tempo che passa e della vita che si assottiglia…). Al punto che lui non va in un ufficio, al laboratorio analisi o in farmacia e si mette in fila, no. Lui la fila la deve aprire. Deve essere la testa d’ariete di tutte le file. Il capo dei capi. E se questo lo moltiplichi per millemila anziani (l’Italia non sarà un Paese per vecchi, ma è un Paese DI vecchi), si fa presto a capire perché:

  1. Le file non scorrono
  2. È tutto sempre intasato
  3. Gli uffici non funzionano
  4. Si accumulano ritardi
  5. Si accumulano nervosismi
  6. La gente litiga
  7. Sono tutti stressati
  8. La gente si separa
  9. Il mondo è pieno di guerre

Dentro ogni fila ci sono sempre almeno 3 anziani che rivendicano un primato (peraltro interpretabile: vale chi staziona da più tempo davanti all’ufficio ancora chiuso o chi entra per primo una volta aperto? Vale l’orologio o il numeretto? E, soprattutto, al di là dalla logica: valgono le buone maniere, l’educazione, il senso civico e la cavalleria, o l’atavica ansia da prestazione dell’anziano, che è inversamente proporzionale a quella che aveva quando era giovane: fare presto, essere, appunto, il PRIMO?).

Passa ogni docilità, tenerezza, voglia di raccontare: il senso ultimo di tutta la giornata è il primato alla fila. Poi si può anche morire.

E tu che ogni giorno combatti con figlidaportareascuolaspesadafaremedicineperlasuoceratassedapagareanalisidafarecartellinodatimbrare hai perso in partenza.

Ti devi rassegnare.

Devi cedere.

Perché

nessuna tua scadenza

nessuna riunione col capo

nessun bambino con la dissenteria

nessuna suocera con la sciatica

nessun esame clinico urgente

varranno mai quanto l’Urocontrol di qualche anziano che lo deve portare a casa al massimo per le 9.30, ché poi deve sbollentare la scarola e mentre si raffredda si deve riappisolare prima che inizi Forum e sia ora di pranzo e la giornata possa dirsi conclusa lì.

(…but I love him… ❤ )

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Cose belle per davvero

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Mercoledì è giorno di mercato sotto casa e credo sia il momento di maggior tenerezza della mia settimana. Ugo, il mio vicino di pianerottolo, 81 anni, fa la spesa anche per me.

Gli lascio la lista e i soldi e lui procede. Quando la sera rincaso c’è la consegna,ma la cosa più bella è la lista “commentata”, che mi dà in busta chiusa assieme al resto e agli scontrini spillati.

Lui non lo sa, ma è uno dei motivi per cui ho ancora fiducia nel mondo.