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La fuga

Non è un post, è un racconto (breve). Pensateci bene…

I

F era ferma sulla banchina, in attesa del treno. Come sempre in largo anticipo, aveva tutto il tempo di assemblare pensieri mentre fluiva il tempo e fluivano lenti i locomotori in manovra sugli altri binari.

Il freddo pungente congelava ogni estremità: le dita, il naso, le orecchie. Persino i capelli erano freddi di un inverno neppure iniziato, ma già minaccioso.

L’orologio segnava le 10. In realtà quell’ora era passata da più di 10 minuti.

Lo guardò a intervalli regolari, per dare al suo sospetto la certezza: sì, la cadenza oraria era una coincidenza, in realtà l’orologio era fermo da chissà quanto tempo, alle 10 o alle 22 di un giorno qualunque.

“Non oltrepassare la linea gialla” ripeteva come un mantra la voce degli altoparlanti, quasi che indovinasse l’istinto autodistruttivo di alcuni o di molti.

“Non oltrepassare la linea gialla”  ripeteva mentalmente F sostando appena prima di quel limite convenzionale.

Quei minuti dilatati diventavano consistenti man mano che la banchina si affollava di altra gente in attesa.

Altri pensieri, altre aspettative, altri corpi solidi ad occupare quello spazio senza lasciare tracce apparenti. Solo molecole sfuggite al controllo e patrimoni genetici immobili come i binari e come i binari, però, necessari al movimento: perché il treno potesse muoversi, andare, occorreva che essi restassero fermi.

E così era per F: perché potesse muoversi, andare, occorreva una base, ferma, di partenza.

Il treno annunciato dalla voce meccanica comparve in lontananza, la linea gialla era il confine tra le regole e l’arbitrio, tra la vita e la morte.

Chissà quanti avevano il coraggio di oltrepassarla nel momento meno opportuno, pensò F, e subito realizzò la che la stragrande maggioranza della gente obbedisce alla voce dell’altoparlante, risponde a quella silente e colorata minaccia e non va mai oltre.

Sui binari come nella vita.

Il treno si fermò stridendo, esattamente come F si aspettava e una porta si aprì davanti a lei, come fosse stata solo sua.

Inspirò a fondo come a prendere coraggio, trattenne la sensazione del freddo sulle guance e salì, senza alcuna fretta.

Il treno riprese la sua corsa in pochi minuti, come se non si fosse mai fermato.

F lo percorreva al contrario, cercando quel 17A lato finestrino  che la aspettava.

Un’altra voce, da un altro altoparlante, era più accogliente, quasi calorosa.

Non vietava nulla, anzi prospettava diverse possibilità, solo chiedeva di non disturbare gli altri passeggeri.

Quel suo essere più conciliante rispetto alla voce della banchina la rendeva meno autorevole, e infatti ognuno disturbava chiunque, col proprio contributo di scarsa educazione.

Ogni possibile supporto tecnologico portatile era presente in quel vagone, un condensato di radiazioni e dipendenze.

F contribuiva come tutti, col suo carico di gigabyte custoditi in borsa.

Lo scorrere del treno pareva anticipare, e di molto, quello del tempo, ma solo perché la sua fisicità imprescindibile gli dava consistenza, mentre il tempo invisibile non lasciava tracce immediate.

Col treno e col tempo presero a scorrere i pensieri nella testa di F.

Ovunque posasse lo sguardo c’era un filo conduttore che portava dritto a quello da cui stava fuggendo: l’e-book del suo vicino di posto, una rivista di architettura, un ragazzo con la maglietta dei Joy Disivion…

F chiuse gli occhi per fuggire le immagini che le rimandavano l’assenza di lui. Il freddo sulle guance era ormai scomparso e un calore innaturale la costrinse a spogliarsi del soprabito, ma nella sua testa scorreva l’immagine di quel giorno in montagna, a due passi dalla prima neve, e riaprì gli occhi, per fuggire al contrario, per lasciarsi alle spalle il già stato ed affrontare, subito, quel presente.

Il treno iniziò a rallentare in vista della prossima fermata. Dal finestrino le immagini rarefatte iniziavano ad assumere contorni man mano definiti. Ora era possibile distinguere le forme, dare un nome agli alberi, alle piante.

L’attenzione di F fu catturata da alcune canne accatastate accanto ad un piccolo capanno immerso nella terra incolta, ma dissodata. “Avranno retto dei pomodori”, pensò con naturalezza neppure fosse stata una esperta contadina, e nella sua mente si materializzò, in sequenza, il piccolo film della semenza, delle piantine, dei solchi, della messa a dimora, l’orgoglio e la speranza, la delusione nel vedere che quell’estate le piante non portavano alcun frutto, quasi a significare che non basta portare avanti un processo di semina, per raccogliere, devi anche curare le piante, con amore.

“Emblematico” le aveva detto lui, raccontando quella sconfitta. “Ho capito che senza te non può crescere nulla”.

Erano trascorsi mesi, aveva rimosso quell’episodio. Ci aveva ripensato solo quella volta, a cena con gli amici, quando tentando di dimenticare proprio lui accostò alla bocca il suo sauvignon e l’odore della foglia di pomodoro la colpì dritta al cuore come una pugnalata.

Chiudere o aprire gli occhi non cambiava il risultato, immersa in quella fuga ne veniva inghiottita come da sabbie mobili, tutto la riportava al punto di partenza, tutto le tratteneva il respiro. Tutti cospiravano contro di lei: la rivista, la t-shirt, l’e-book, le canne, la signora che in fondo al vagone diceva al figlio di stare seduto chiamandolo con “quel” nome.

Si sentì persa, si alzò di scatto.

I suoi vicini di posto la guardarono incuriositi, in attesa del prossimo movimento, ma lei restava ferma, una mano appoggiata allo schienale, lo sguardo in cerca di una via di fuga, ma tutto attorno a lei era senza via d’uscita.

 

II

“Come sta? Non la vediamo da tanto! Quando ho letto il suo nome tra gli arrivi sono stata così contenta, ho pensato ‘ecco che torna la nostra bella signorina, speriamo sia solo un controllo e niente di più’. E’ solo un controllo? Vedo che resta solo una notte! Le prenoto il solito ristorante? Ma sa che questi capelli lunghi le stanno proprio bene?”

La signora della reception come al solito parlava a raffica, affettuosa nelle parole e nei gesti, smentendo la proverbiale riservatezza dei veneti ed F che avrebbe voluto solo il silenzio, non riuscì a non restituirle tutta quella cordialità. Finse lo stesso entusiasmo e rispose a ogni domanda.

“Mio figlio le ha riservato la sua stanza preferita, sa?” e anche in quel gesto, di una persona ben più riservata, c’era affetto, un rapporto costruito nel tempo, tutto quello trascorso a combattere quel male, tra ricoveri e visite di controllo.

No, ‘stavolta nessun controllo e nessun ricovero, solo una fuga, il tentativo di guarire da un altro male, più subdolo e doloroso, partendo da un luogo che l’aveva vista rinascere più e più volte.

“Sì, un controllo di routine”, rispose però, perché era la cosa più semplice da dire.

Subito dopo si immerse tra le vie di quella città tanto amata, tanto familiare. I portici e i terrazzi ricolmi di verde, l’immancabile foschia della sera e i suoi passi che percorrevano leggeri la solitudine dell’ora di cena in una città di provincia.

Anche nel “solito ristorante” (incredibile, non era mai riuscita a memorizzarne il nome) fu accolta come una di casa: tutti i camerieri la salutarono disponendosi in parata e dalla cucina accorse anche l’anziano proprietario.

Le consigliò di assaggiare la vellutata di carciofi con lo speck e subito F si guardò attorno, si sentì circondata, di nuovo, al centro di una cospirazione o anche solo di un brutto sogno.

Erano solo parole, erano solo ingredienti, ma rievocavano giorni e discorsi e situazioni e risate che immancabilmente avevano i tratti del suo volto, il volto di quell’uomo che un giorno le aveva detto solo “ciao cuore” ed era sparito dalla sua vita dopo averla riempita di cose veramente importanti e irrinunciabili.

Quando ti tolgono tutto, impari a vivere senza niente

Dopo cena camminò a lungo, senza meta. A quell’ora la città era buia e vuota, erano davvero poche le persone per strada, F aveva sempre trovato questa cosa molto strana, ma ci si era abituata, non aveva mai avvertito quel senso di pericolo di cui tutti parlavano.

Camminò per più di un’ora, ad ogni passo un ricordo, ma questa volta della sua vita da sola, in quella città. Quando le dissero del secondo intervento, e poi del terzo, fino al sesto, e che rischiava ogni volta molto e lei che all’epoca non sapeva bene come funzionava la storia dell’esistenza di Dio, lo stesso aveva sempre accolto ogni sentenza con serenità, un po’ perché col tempo aveva capito che Dio c’era sempre stato, un po’ perché se c’era al mondo un posto in cui si sentiva al sicuro era proprio quella piccola e signorile città della provincia veneta: era talmente bella e quieta che lì non poteva succederle nulla di brutto.

Non poteva morire, non poteva subire alcuna aggressione, non poteva spezzarsi il suo cuore anche se adesso si reggeva a stento.

Da lì poteva solo venire qualcosa di buono, come sempre, lei lo sapeva.

E infatti dormì profondamente, quella notte, come ormai non le accadeva più da tempo. Si sentiva protetta da tutto, tra le mura di quella città e tra le pareti di quell’albergo familiare.

Aprì gli occhi e anche se il primo pensiero fu, come sempre, lui, non ebbe bisogno di trattenere le lacrime, potè salutare quel mattino con un respiro asciutto e regolare, accennando un sorriso.

Anche quel giorno camminò a lungo e senza meta apparente. In realtà percorreva quasi per istinto il percorso sperimentato negli anni: il tale bar, la pinacoteca, le chiese, il negozio di abiti vintage, quello di libri rari, i palazzi storici, la villa comunale, quell’altro bar e il panificio, le piazze, i mercatini, il negozio di cappelli, i ponti sul canale, la pasticceria per il suo the da gran signora, il negozio di guanti, quello di saponi, le altre piazze.

Passarono diverse ore, e riuscì a non pensare a lui. E anche se ora, realizzandolo, ci stava pensando, si sentì sollevata: aveva avuto ragione nel pensare che tornare lì le avrebbe fatto bene.

Perché in quella città non c’era nessun collegamento con lui: tutte le volte che c’era stata ancora non lo conosceva, non c’era un posto in cui aveva ricevuto una sua telefonata o un negozio in cui aveva comprato qualcosa per lui, uno scorcio che aveva fotografato per condividere con lui il momento.

Quella città era solo sua.

La speranza che aveva coltivato lì era solo sua.

E anche se ora era lì per scordare di lui, niente di tutto quello che attraversava li aveva visti, in qualche forma, insieme.

Senza accorgersene si ritrovò davanti alla “sua” Basilica, senza passare dal viale che la preannunciava. Sorrise, sorrise a lungo, ferma dinanzi a quelle porte cesellate e respirò a fondo, come il figlio che torna a casa dopo mesi di assenza e sente dentro sé combattere emozione e timore, gioia e apprensione.

Il respiro non era più trattenuto e neppure i pensieri: tutto convogliava verso una gioia silenziosa ma profonda, fatta di piccoli segni di riconoscimento e appartenenza, calata nelle consapevolezze acquisite col tempo e con una vita non sempre facile, spesso anche meno di adesso.

Anche la prima volta si trovò davanti a quella Basilica per caso, inconsapevolmente. Quella città era famosa per “il Santo”, meta di pellegrinaggi e devozioni universali. Lei, sin dalla prima volta, aveva trovato prima la “sua” Madonna ad accoglierla e quello era stato il segno che era nel posto giusto, che era al sicuro.

E adesso quella nuova certezza, il ritorno, la conferma di essere al sicuro e di aver imboccato la strada giusta per la guarigione.

L’aria era fredda, ma quel sole che splendeva senza esitazione rendeva sopportabile ogni asprerità, quelle climatiche e quelle emotive.

Avrebbe assistito all’imbrunire sulla via del ritorno, di nuovo sul treno, tra immagini rarefatte e pensieri oramai assemblati.

Aveva dovuto ricordare da dove era partita, per capire dove era arrivata.

Ripercorrere le strade e le sensazioni per ammettere che no, d’amore non si muore, perché le malattie vere e i dolori lancinanti sono altri. Sono quelli che la vita ti impone e tu non puoi farci nulla, e non quelli che, come ogni sofferenza, puoi scegliere, di subire, curare, risolvere, archiviare. Rifiutare, anche. Più o meno come chi ha rifiutato te, cuore.

Seduta di fronte a lei, sul treno, un ragazzo leggeva dei fumetti di Zerocalcare. La cosa non la lasciò indifferente: gli sorrise.

E sorrise a se stessa pensando a quanto era stato bello avere avuto accanto un uomo che le aveva insegnato tanto.

Anche come andare avanti senza di lui.

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